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Psicoterapia integrata... approfondimenti

 

Per qualunque sistema vivente, gli inizi preparano il corso di ogni aspetto del funzionamento interno ed esterno di quell'organismo per tutto il resto della vita; anche ad un livello neuroscientifico, si afferma che l'esperienza emotiva positiva o negativa può lasciare una traccia permanente in una rete neurale formata da connessioni sinaptiche immature ancora in via di sviluppo ed, in questo modo, può ampliare o limitare la capacità funzionale del cervello negli stadi successivi della vita.

 Studi scientifici dimostrano, infatti, che le esperienze interpersonali arrivano ad influenzare le attività delle cellule nervose, sia nel senso del “Branching” (“Ramificazione”) che del “Pruning” (“Potatura”) delle connessioni limbiche: le esperienze emotive positive di protezione, accudimento, sicurezza intersoggettiva, determinano la crescita di nuove reti psiconeurobiologiche, prevalentemente a livello dell'emisfero cerebrale destro e, in particolare, delle strutture limbiche.

 Nelle esperienze di attaccamento, pertanto, il fattore primario è il tipo di comunicazione emotiva che si stabilisce tra il bambino e coloro che si prendono cura di lui; all'interno di una relazione sicura, la sensibilità e la disponibilità del caregiver fanno si che il bambino si senta sempre più compreso; questo gli consente di interiorizzare l'esperienza di contenimento e, in futuro, di essere consapevole di e saper regolare i propri stati mentali.

 Il sistema di attaccamento, dunque, risulta di fondamentale importanza per la strutturazione psichica dell'individuo; il primo a teorizzare quest'affermazione fu J.N.Bowlby nella sua “Teoria dell'Attaccamento” (1969), nella quale si affermava che il ruolo principale che un genitore doveva assumere nei confronti del bambino era quello di “Base sicura” dalla quale il bambino stesso poteva partire per affacciarsi al mondo esterno e a cui poteva ritornare sapendo di essere il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo.

 La capacità del caregiver di offrirsi al bambino come “Base sicura” , ossia, di sintonizzarsi con gli stati emotivi del bambino è, naturalmente, influenzata anche dalle precedenti esperienze interpersonali e personali del genitore; ogni caregiver, infatti, può essere empatico solo là dove il suo passato non gli impone delle catene invisibili.

 Nel caso di un attaccamento sicuro, le risposte del genitore aiutano sia ad alleviare l'angoscia del bambino, sia ad amplificare le sue emozioni positive; come conseguenza, il bambino vive la relazione di attaccamento come un contesto nel quale gli affetti possono essere regolati in maniera efficace e ciò che registra internamente è la sensazione che il sé è buono, amato, accettato, competente. Quando, invece, i segnali del bambino evocano, da parte del caregiver, risposte dissonanti che scoraggiano la ricerca della prossimità o l'autonomia, il bambino modificherà l'espressione dei suoi stati emotivi per adattarsi al caregiver e svilupperà una strategia secondaria dell'attaccamento che rifletta o una disattivazione o un'iperattivazione del sistema comportamentale di adattamento; queste strategie dell'infanzia possono essere considerate precursori delle difese psicologiche che si originano durante i tentativi del bambino necessari per far fronte al meglio ad una situazione difficile, vale a dire, per adattarsi a figure di attaccamento le cui personali difese - “catene invisibili”, vedi sopra- hanno compromesso la loro capacità di regolare in modo interattivo gli affetti del bambino.

 Queste stesse modalità di adattamento del bambino, saranno quelle che poi ritroveremo nell'adulto e che, in alcuni casi, saranno diventate problematiche; in terapia, esse verrano intese però come la miglior soluzione possibile alle condizioni date, ai problemi di natura adattiva relazionale di cui la persona è stata capace. Queste modalità, per loro natura, hanno la tendenza ad autoorganizzarsi e ad autorigenerarsi secondo la guida del sistema primario di attaccamento e sono volte a controllare il distress psicologico e ad evitare il rischio ed il costo dei cambiamenti.

 Il costo di queste modalità di adattamento che ritroviamo nell'adulto è rappresentato dal grado di “povertà” dei sistemi funzionali e di rappresentazione disponibili per la vita e dalla riduzione delle capacità di consapevolezza, quella stessa consapevolezza che, nel nostro modello, è una delle tre variabili che costituiscono le funzioni psicologiche fondamentali di un sistema sano ed adulto.

 Nell'ultimo dei suoi libri sull'Attaccamento, Bowlby cita Freud, il quale aveva commentato una risposta peculiare di un paziente che si era reso consapevole di qualcosa di “dimenticato”: “Veramente l'ho sempre saputo, solo che non ci pensavo” (Bowlby, 1988); forse, Bollas (1987) che ha coniato la frase evocativa “Il conosciuto non pensato” aveva letto lo stesso passaggio tratto da Freud!

 Ciò che “conosciamo” ma non “pensiamo” (o a cui non possiamo pensare) è anche ciò di cui non possiamo parlare e la conoscenza non-verbalizzata o non-verbalizzabile ha un'influenza enorme perchè rimane impressa al di fuori della consapevolezza conscia e gioca un ruolo determinante sia in psicoterapia, sia nella fanciullezza.

 Ci sono almeno due risultati della ricerca sull'attaccamento che ci obbligano a porre una particolare attenzione a quelle esperienze che le persone che giungono in terapia non vogliono o non sanno tradurre in parole: 

  • Noi riceviamo le lezioni più significative e durature su come siamo in relazione agli altri quando abbiamo 12 mesi o, forse, anche prima, ossia, le fondamenta dei nostri modelli operativi interni sono tutte messe in opera ben prima dell'acquisizione del linguaggio.

  • Le relazioni genitore-bambino che hanno maggiori probabilità di poter promuovere con successo un attaccamento sicuro sono quelle in cui il genitore riesce a trovare quanto più spazio possibile per l'intero spettro delle esperienze soggettive del bambino.

 

Tutto questo ha delle implicazioni decisamente notevoli per il processo di psicoterapia:

 Innanzitutto, come diceva Perls (1969): “La consapevolezza di emozioni non desiderate e la capacità di sopportarle sono la condizione sine qua non di una cura di successo”.

  1. In altri termini, il riconoscimento e l'accettazione delle emozioni (consapevolezza) costituiscono i passi decisivi del processo di cambiamento. I tentativi di controllare/eliminare le emozioni sono una causa di disfunzione e confusione e, potenzialmente, possono portare alla patologia; l'ipercontrollo e l'evitamento, infatti, non consentono alle emozioni di svolgere il loro compito di dirigere l'azione. Rendersi conto, “quì ed ora” di sé (consapevolezza) amplia lo spazio della coscienza e rimanda alle emozioni ed ai significati che circondano l'evento in senso storico e relazionale. Il contatto con l'esperienza percettiva ed emotiva attuale fa parte di un sistema complesso che è in relazione sia con il presente affettivo, che con la memoria storica collegata a sistemi di significato rilevanti in senso ontologico.

  2. L'importanza di includere una sufficiente attenzione rivolta al corpo. All'origine, nell'infanzia, il bambino impara cosa sia il significato emotivo delle sensazioni corporee facendo esperienza del comportamento corporeo sintonizzato (tatto, sguardo, espressioni facciali, tono della voce) di una figura di attaccamento sensibile e responsiva; se alle persone che giungono in terapia, da piccole, è mancata una responsività sintonica di questo tipo, esse non sanno regolare le loro emozioni. Il tradurre, pertanto, il linguaggio del corpo in quello dei sentimenti aiuta a far crescere quella capacità di regolare interattivamente le emozioni che permette alla persona di vivere il terapeuta come una nuova figura di attaccamento e come “Base sicura”; nel tempo, una simile regolazione interattiva delle emozioni aiuta la persona stessa ad imparare a decodificare le proprie sensazioni somatiche, così che gli affetti possano essere utilizzati come segnali per il sé e per gli altri. Oltre ad accrescere la capacità della persona di regolare le emozioni, l'accentrare l'attenzione sul corpo ha il potere di facilitare l'integrazione delle esperienze che le relazioni di attaccamento dell'infanzia non avevano saputo accogliere; per mezzo di stati corporei e di espressioni corporee, le persone rivelano sentimenti – e difese dai sentimenti- che non hanno saputo, o non hanno voluto, riconoscere: il corpo rivela il subtesto non-verbale del dialogo terapeutico.

 Gli altri due poli che, insieme alla Consapevolezza, costituiscono le funzioni psicologiche fondamentali del sistema sano e adulto sono: l'Esperienza e la Responsabilità.

 Per “Esperienza”, si intende il vissuto psichico in relazione a: sensazioni, percezioni somatiche, percezioni esterne ed emozioni, memorie, immagini, parole, pensieri.

 L'esperienza terapeutica basata sul “quì ed ora” è riconosciuta per avere il più grande potere di cambiamento se focalizzata sull'esperienza “sentita”; come afferma Siegel (2006): “Dove va l'attenzione, là accade un'attivazione neurale” che promuove l'integrazione di nuove combinazioni di parti del sé prima isolate, ossia consente gradi di libertà funzionali via via crescenti.

 L'altro polo da prendere in considerazione all'interno della dinamica psicoterapeutica è quello della “Responsabilità.

 Il termine “Responsabilità” deriva dal Latino “Respònsus”, Participio Passato del verbo “Respòndere”: “rispondere”, impegnarsi a rispondere, a qualcuno o a se stessi, delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano.

 La parola “Responsabilità” secondo il nostro Modello di Terapia, è intesa come capacità di rispondere a se stessi; essa comporta il riconoscimento delle proprie possibilità di scelta tra sistemi e comportamenti diversi, secondo una gamma che va da forme più adulte ed evolute, ad altre più “povere” e regredite.

 Diventa possibile “scegliere” solo allorchè la persona abbia imparato a discriminare con chiarezza sensazioni, emozioni, bisogni, nel proprio continuo cambiamento; l'assunzione di responsabilità per l'esperienza affettiva porta con sé, come conseguenza, la modifica dell'elaborazione automatica in un'elaborazione controllata.

 Proprio per questo motivo, il nostro approccio terapeutico parte dalla concezione di terapia come percorso individuale, in cui il terapeuta non possiede uno schema “giusto”, preordinato, da offrire o richiedere alla persona che in terapia giunge, ma è una presenza -analoga a quella di Virgilio per Dante- con un ampio grado di libertà emotiva, che accompagna la persona nel suo percorso esperienziale di costruzione di conoscenza e di abilità operative.

 La persona che arriva in terapia ha un accesso privilegiato alla propria esperienza ed è l'unica vera “esperta” di se stessa, oltre ad essere protagonista attiva della sua vita e a possedere, intrinseca in sé, una forza naturale che va nella direzione della crescita e dell'autodeterminazione.

 Vorrei riportare qui, a questo proposito, un passo tratto da un libro di Carl Rogers (1978):

 “Ricordo che, durante la mia adolescenza, conservavamo la nostra provvista di patate per l'Inverno in un recipiente posto sotto una piccola finestra, nel seminterrato. Le condizioni non erano favorevoli, tuttavia le patate germogliavano ugualmente: dei pallidi germogli biancastri, tanto diversi da quelli verdi e vigorosi che spuntavano quando le patate venivano piantate in terra a Primavera. Ma questi tristi ed esili germogli si allungavano fino ad un metro per raggiungere la distante luce della finestra […] Non diventavano mai una pianta, non maturavano, non esaurivano la loro reale potenzialità ma, pur nelle più avverse condizioni, si sforzavano di farlo. La vita non cede mai, anche se non può fiorire.”.

 Proprio come il bambino trova il modo di adattarsi a quelle che sono le richieste implicite del caregiver, così l'adulto porta in terapia i modi che ha trovato per sopravvivere in un ambiente che non lo ha riconosciuto e che non si è saputo sintonizzare con le sue emozioni; è a questo che si riferisce l'immagine iniziale che abbiamo messo in questa sezione: lo sguardo di una madre che accoglie, che sa guardare l'altro nella sua unicità e che, pertanto, lo conferma nella sua essenza di individuo.

 La regolazione delle emozioni resa capace da questa sintonizzazione -del caregiver prima e del terapeuta poi- è alla base dei processi di organizzazione del sé, organizzazione che , in terapia, viene strutturandosi secondo un percorso che consta di cinque tappe fondamentali: 

  1. Riconoscimento dei propri processi emotivi, cognitivi e comportamentali, con caratteristiche problematiche.

  2. Accettazione, cioè, assunzione di valore della propria dimensione problematica nelle specifiche difficoltà (solo attraverso tale accettazione può avvenire il cambiamento).

  3. Ricostruzione delle reti di significato presenti nella storia evolutiva personale, che guidano i processi di motivazione e rappresentazione (flusso di esperienza che si muove dal “quì ed ora” al “là e allora” e che ritorna al “quì ed ora”, secondo nessi di natura emozionale).

  4. Assunzione di più ampi gradi di libertà di espressione dei propri vissuti, in particolare per quanto riguarda le emozioni.

  5. Assunzione di responsabilità nei confronti di sé, della propria storia e delle relazioni con gli altri. Essa comporta anche il profondo riconoscimento delle proprie possibilità di scelta tra sistemi di comportamento diversi.

 Per concludere questa panoramica sul nostro modo di lavorare in Psicoterapia, vorrei citare una frase di Bowlby contenuta nel suo libro: “Una base sicura” (1989):

 “Fortunatamente la psiche umana, come le ossa, è fortemente incline all'autoguarigione. Il lavoro dello psicoterapeuta, come quello del chirurgo ortopedico, è di fornire quelle condizioni in cui l'autoguarigione possa meglio avvenire.”... ossia, un luogo metaforico in cui la mente dell'Altro sia “tenuta in mente”.

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